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The Sonos Guide: alla scoperta del fascino mutevole del Brit Soul

È un genere che si nutre costantemente di variabili come l’eredità caraibica e l’influenza americana, e il risultato è sempre terribilmente attraente. Ispirati dalle magnifiche stazioni radiofoniche e dai programmi originali di Sonos che vantano host di prestigio come Thom Yorke ed Erykah Badu, siamo arrivati al secondo appuntamento dopo il french touch

Autore Billboard IT
  • Il15 Marzo 2022
The Sonos Guide: alla scoperta del fascino mutevole del Brit Soul

Adele, fonte ufficio stampa

Il Brit Soul è un genere che si nutre costantemente di variabili come l’eredità caraibica e l’influenza americana, e il risultato è sempre terribilmente attraente. Ispirati dalle magnifiche stazioni radiofoniche e dai programmi originali di Sonos che vantano host di prestigio come Thom Yorke ed Erykah Badu, siamo arrivati al secondo appuntamento dopo quello dedicato al french touch.

Senza dubbio gli inglesi devono molto alle loro colonie e alle basi militari americane nel loro territorio, musicalmente parlando. Quando negli anni ’60 i giovani immigrati partivano dalle ex colonie britanniche per raggiungere i porti inglesi – da dove speravano cominciasse una nuova vita – portavano con sé i suoni, le musiche, l’identità culturale delle strade delle loro città.


Come Kingston, capitale della Giamaica: i tanti album registrati con i sound system locali cominciavano a girare nei negozi di dischi di Liverpool o Londra. Un’era pre-reggae: nell’isola tropicale le influenze del soul americano e più in generale della cultura afroamericana erano fortissime. Si mescolavano con i ritmi e il folk nazionale e davano vita al rocksteady e allo ska.

Sempre il soul americano era presente nelle casse delle navi che arrivavano nei porti inglesi, soprattutto a Liverpool. I soldati americani stanziati nelle basi militari non avrebbero mai fatto a meno dei loro vinili di country, R&B, blues, jazz, skiffle e soul music. Fu così, attraverso lunghi e avventurosi viaggi dettati o dalla necessità o dal piacere, che gli adolescenti del Regno Unito ne scoprirono il fascino sensuale. Erano suoni che – in maniera ancora più esplicita del rock’n’roll che era arrivato dall’America già edulcorato – sapevano esaltare il linguaggio del corpo.


Dalla fine degli anni ’60 il soul diventa la musica dell’intrattenimento, del piacere proibito. Insomma, dei lunghi fine settimana consumati – specie nelle città del nord dell’Inghilterra – vagabondando da un club all’altro. Dal mitologico Wigan Casino al The Torch di Stoke-on-Trent, dal Catacombs di Wolverhampton al Blackpool Mecca.

È il fenomeno del northern soul, senza il quale non sarebbe esistita la club culture. Ovvero l’idea che le discoteche potessero essere “casa”, una seconda famiglia spesso più accogliente di quella originale. Come ha scritto il Guardian, il northern soul “fu il primo grande fenomeno underground britannico, una segreta nazione nella nazione”. Se inizialmente la colonna sonora di quelle danze sino all’alba erano i classici che arrivavano dall’altra parte dell’oceano, col tempo l’Inghilterra esprime le proprie produzioni. Comparvero allora nomi poi diventati celeberrimi come Chris Farlowe e Rod Stewart.

Dusty Springfield nel 1966 (© Alamy Foto Stock)

Le protagoniste della fine degli anni ’60

Un’interessante caratteristica era la presenza di tante nuove figure femminili che spesso avevano un’immagine decisamente più edulcorata rispetto alle cantanti americane. Per esempio Petula Clark, Linda Lewis, Kiki Dee, Tina Charles. Quest’ultima tuttavia realizzò il suo più grande successo solo nel 1976, con I Love to Love.

Ma su tutte svettava la voce particolarissima da mezzosoprano di Dusty Springfield. Quando esordì nel 1963 si ispirava alle produzioni della Tamla Motown e di Phil Spector. Da I Only Want to Be With You fino alla meravigliosa Son of a Preacher Man del 1968 sfornò quasi solo hit.


Saranno poi le icone della pop disco colta, i Pet Shop Boys, a tributarle un omaggio che sapeva di consacrazione per gli ascoltatori giovani che non la conoscevano. Nel 1987 la invitarono a registrare con loro What Have I Done to Deserve This, che arrivò ai vertici delle classifiche. La band tornò in studio con lei per produrre nel 1989 il suo album Reservation, anche questo un lavoro di grande successo.

È il segno che il soul è diventato davvero, nel corso del tempo, un elemento costitutivo della musica inglese. Lo ha fatto solcando le decadi e mantenendo stretto il legame con le sue origini, seguendo le tracce della diaspora africana. Un legame che è il cuore delle canzoni dei londinesi Cymande. Questi si muovono nella Londra post-hippie dei primi anni ’70, esplorando l’affascinante poliritmicità della musica suonata dalla comunità afrocaraibica della città.

Nel gruppo confluiscono artisti giamaicani, della Guyana e di St. Vincent. La band affascina Al Green, che li vuole con sé in un tour americano. Un decennio dopo tornano in superficie: i loro brani diventano un’inesauribile fonte di campionamenti per artisti hip hop come De La Soul, EPMD, più tardi i Fugees. E saranno di ispirazione per Spike Lee, che utilizza la loro Bra in due film, Crooklyn e La 25esima ora.

La rinascita del brit soul negli anni ’80

Il fenomeno di riscoperta di artisti dimenticati o sottovalutati dal grande pubblico generò nei primi anni ’80 il cosiddetto rare groove. Il movimento cercava classici del soul dimenticati, brani minori o band sconosciute con l’intenzione di farle tornare a splendere, magari influenzando anche una nuova scena soul.


Come i Freeez, due ragazzini collezionisti di vinili che si incontrano nel negozio di Petticoat Lane Derek’s Records. Iniziano a suonare in un sottoscala, si autoproducono i primi singoli e poi arrivano al grande successo con Southern Freeez e IOU.

Il loro suono si ricollega idealmente a quello di band che avevano avuto grande popolarità negli anni ’70. Come gli scozzesi Average White Band, che incidono capolavori come Pick Up the Pieces e Let’s Go Round Again. Nei loro dischi il soul si trasforma in funk, poi in blues, per tornare ad essere la “musica dell’anima”.

Ma tutti gli anni ’80 segnano una rifioritura della scena brit soul. Nel 1982 debuttava Carmel (nome d’arte di Carmel McCourt) e due anni dopo tutti s’innamorarono della compositrice e cantante di origine nigeriana Sade Adu, che debuttò con il fortunatissimo album Smooth Operator. Nelle classifiche sfondarono anche i Simply Red e i Loose Ends.

Paul Weller, il “modfather” con lo sguardo sempre aperto

Un caso a sé stante è il mercuriale Paul Weller, emblema della mitologia del “modernismo”, della vibrante cultura mod, del gusto e dello sguardo aperto su un futuro dove ogni differenza legata al colore della pelle potesse essere azzerata.


Un immaginario che era al centro di un romanzo di formazione inglese di culto come Absolute Beginners, uscito nel 1959 (titolo italiano Principianti Assoluti), dello scrittore Colin MacInnes sulla vita a Londra alla fine degli anni ‘50, quando il rock’n’roll inizia a lasciare il posto a quella realtà che qualche tempo dopo verrà definita Mod. Romanzo dal quale nel 1986 Julian Temple ha tratto un film omonimo con, tra gli altri, David Bowie e Patsy Kensit.

«Quando abbiamo sviluppato il concetto originale di Sonos Radio, sapevamo che il cuore della piattaforma sarebbe stato un’attenta e puntuale curatela: una “ancora creativa” e un qualcosa che ci differenzia. Cerchiamo di fornire una vasta gamma di opzioni per gli ascoltatori, andando incontro anche alle esigenze del pubblico in specifiche aree geografiche. È così che prendono vita stazioni come French Connection! La nostra ambizione, con queste stazioni, è quella di offrire agli ascoltatori una selezione di artisti già noti ma anche emergenti (piuttosto che affidare loro l’onere attivo di selezionare brani e artisti), innovando l’idea di ciò che gli ascoltatori possono trovare dalla radio»

Joe Dawson, Senior Director di Sonos Radio

L’eleganza street, l’amore per icone del design come le macchine italiane per il caffè espresso e gli scooter cromati della Vespa si confuse con i suoni che arrivavano dalla musica nera americana, generando un “mod revival” che sedusse gli Style Council, l’allora nuova creatura musicale di Paul Weller. Canzoni come Shout to the Top! e My Ever Changing Mood ci fanno viaggiare nel tempo, ci riportano proprio agli anni dei secret parties organizzati nei sobborghi dai giovani di origine caraibica, dove stile e musica erano legati in maniera indissolubile.

La danza era vero rito di corteggiamento. Era il corpo a parlare: Body Talks, per citare il titolo di un grande successo degli Imagination, trio inglese che nei primi anni 80 scalò le classifiche con una serie di brani che lasciavano immaginare (appunto!) quali sensazioni potesse suscitare la loro musica se solo l’ascoltatore decideva di lasciarsi andare.

I Soul II Soul nel 1995 (© Alamy Foto Stock)

Una piattaforma per la contaminazione di tanti linguaggi

Il suono si apre a linguaggi diversi, quello del jazz, del funk, dell’hip hop: è la dance britannica, prima che – via Ibiza – arrivasse dai gay club americani la house music. Un’incredibile molteplicità di produzioni che furono meticolosamente documentate dalla serie di raccolte dell’etichetta Street Sounds, una delle storie più importanti e meno conosciute della dance music, che descrivono benissimo una vitalità sotterranea che conquista il grande pubblico.


Ciò si riverbera anche in una rivista iconica per le nuove generazioni inglesi di allora come The Face, che nei primi anni ’80 lanciava periodicamente in copertina le star della scena new romantic (anche se curiosamente il primo numero, del maggio 1980, ritraeva in copertina Jerry Dammers del gruppo ska The Specials).

Il magazine aveva capito che i nuovi trend si trovavano soprattutto bazzicando le discoteche ambulanti giamaicane che affollano Portobello Road nei giorni del Carnevale londinese,con i loro bassi profondi e pulsanti.

In quel coloratissimo contesto di feste, debuttarono anche i Soul II Soul, una sorta di “collettivo aperto” guidato da Jazzy B che sapeva innestare nella matrice soul lascive orchestrazioni di archi, scratch di DJ e dolci voci femminili, come quelle della loro canzone-manifesto, Back to Life, originariamente registrata come “a cappella” da usare nei mixaggi delle serate come DJ, sino al disco d’esordio, una delle opere più affascinanti del british soul, Club Classics Vol. 1.

Il brit soul è ancora potentissimo: dalla compianta Amy alla stella Adele

Entrati negli anni ’90, arriva Contribution di Mica Paris, il suo secondo album al quale collabora la superstar dell’hip hop americano Rakim (del duo Erik B & Rakim), mescolando scenari urbani americani e club inglesi, sofisticate interpretazioni e i ritmi essenziali del rap. Poi c’è There Is Nothing Like This di Omar, che entra nelle playlist personali di artisti come Stevie Wonder ed Erykah Badu.


La complessità della musica soul britannica è anche la sua salvezza, perché si nutre di variabili costantemente mutevoli (“L’eredità caraibica, mescolata con l’influenza americana e poi un pizzico di cockney”, come afferma lo stesso Omar) che trovano negli anni ‘90 e ancora oggi una vitalità estrema.

Ne sono limpidi testimoni – legati dal fil rouge della genialità – artisti come Jay Kay dei Jamiroquai, Lewis Taylor e poi Amy Winehouse e le nuove icone della musica soul UK come Jessie Ware, Laura Mvula, Michael Kiwanuka e i nuovissimi Skribz Riley (Mandy), Bellah (Something U Like) Rebecca Garton (All Me pt.2), Mnelia (Say Yeah), oltre che naturalmente alla reginetta del moderno soul inglese, Adele.

Articolo di Pierfrancesco Pacoda

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