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I migliori album del 2020: le top 10 della redazione di Billboard. Parte 1

L’annus horribilis che il mondo ha attraversato volge al termine. Ma quest’anno non è mancata la grande musica: ecco le nostre preferenze fra gli album usciti negli ultimi dodici mesi

Autore Billboard IT
  • Il1 Gennaio 2021
I migliori album del 2020: le top 10 della redazione di Billboard. Parte 1

Foto di Lee Campbell - Unsplash

L’anno tremendo che tutti noi abbiamo attraversato è terminato. Tuttavia, pur fra mille difficoltà, soprattutto per quanto riguarda gli spettacoli dal vivo, la grande musica non è mancata. Anzi, per tante persone ha costituito un insostituibile antidoto alla solitudine dei lockdown. Abbiamo quindi deciso di ripercorrere gli ultimi dodici mesi di uscite discografiche per selezionare gli album a nostro giudizio più validi del 2020. Compilano le loro personali top 10: Tommaso Toma, Federico Durante, Alberto Campo e Damir Ivic. Qui la prima parte con le top 10 di Durante e Campo. Nel secondo articolo quelle di Toma e Ivic.

La top 10 di Federico Durante

The 1975, Notes on a Conditional Form
(Dirty Hit)

Opera cromaticamente composita ma anche di eccezionale immediatezza e accessibilità. Ha il respiro “universalistico” e creativo del romanzo. Con largo margine di approssimazione, viste le tante ramificazioni stilistiche, il tono dominante dell’album è quello di un pop intimista, magnificamente prodotto, che ci lascia sbirciare nelle nostalgie altrui attraverso impressionistiche pennellate di ricordi e frammenti dell’animo.

Run The Jewels, RTJ4
(Jewel Runners)

Per forme e contenuti è forse il disco più “heavy” firmato El-P e Killer Mike, anche se non rinuncia a quel distintivo binomio di politico e privato, cazzeggio e critica sociale, che il duo ha ereditato direttamente dall’epoca d’oro dei gruppi hip hop: Run DMC, Public Enemy, Cypress Hill. Uscito a pochi giorni dall’omicidio di George Floyd, è anche un prezioso documento per capire la frustrazione degli oppressi d’America.

Future Islands, As Long As You Are
(4AD)

La riconoscibilità dello stile canoro di Samuel T. Herring, la sua grande sensibilità di scrittura e il nitore dei suoni creati dalla band sono gli elementi che hanno fatto dei Future Islands uno dei nomi di sicuro valore del synth pop alternativo degli anni ’10. Nel nuovo album sprigionano tutto il loro potenziale creativo in uno dei loro lavori meglio riusciti, magnificamente debitore della new wave più matura, à la Cure.

Beabadoobee, Fake It Flowers
(Dirty Hit)

Notevolissimo album d’esordio dell’artista di origini filippine che porta il bedroom pop minimale delle sue origini a un livello superiore di songwriting e produzione. Le canzoni, trascinanti e impeccabili, esibiscono un corpo robustamente “chitarristico” e reminiscente di certe pose rock anni ’90 – un nome su tutti, gli Smashing Pumpkins – anche con una buona attitudine DIY. Una luce di speranza per la guitar music.

Pat Metheny, From This Place
(Nonesuch)

Più che un semplice “chitarrista jazz”, Metheny è un compositore a tutto tondo. Il suo animo da sempre sperimentatore l’ha avvicinato a più riprese all’approccio più tradizionale che ci sia: quello orchestrale. È il caso di From This Place: con la mente rivolta al presente e il cuore rivolto alla grande tradizione losangelina della musica per film, l’album ci parla di America con la calda eleganza del jazz orchestrale.

Moses Sumney, græ
(Jagjaguwar)

La sua ricerca musicale sintetizza la crème di tante sonorità (pop, jazz, soul, R&B, elettronica, mondo delle colonne sonore) in un iper-stile cangiante come il suo autore. Convince anche per uno spessore lirico assolutamente al di sopra del canone della scrittura pop: filosofico nel contenuto e poetico nella forma. græ amplia ulteriormente il vasto respiro estetico già sperimentato con l’esordio Aromanticism.

Asaf Avidan, Anagnorisis
(Telmavar)

Laddove il precedente album si concentrava su un omogeneo sound folk/Americana, questo lavoro si muove con forza centrifuga in tante direzioni diverse e complementari. Anagnorisis è un’opera di pop d’autore dall’ampio spettro musicale e culturale (anche in senso filosofico), che disseziona con eleganza i temi della molteplicità del sé e dell’accettazione della caducità di tutto ciò che ci circonda.

Fleet Foxes, Shore
(Anti-)

Sono passati molti anni da quella piccola gemma che era White Winter Hymnal ma la band guidata da Robin Pecknold continua a dimostrare freschezza e felici intuizioni musicali. Questa sorta di post folk, quasi un cantautorato spirituale, nel loro ultimo album rimane un prezioso distillato di songwriting di razza, arrangiamenti sopraffini, capacità di creare paesaggi sonori sconfinati e incontaminati.

Khruangbin, Mordechai
(Dead Oceans)

Houston è “l’altro Texas”: inclusivo, multiculturale, meticcio. Una varietà sociale che si riflette inevitabilmente nella musica prodotta laggiù. I Khruangbin sono fra le migliori espressioni di tutto ciò. Il trio è campione nel combinare un approccio indie rock con le suggestioni provenienti dal mondo (quelli che in altri contesti chiameremmo world music), mostrando una speciale sensibilità per melodie dolcissime.

Travis, 10 Songs
(BMG)

Anche una volta terminato l’hype del mainstream nei primi anni Duemila, con autentica caparbietà scozzese la band capitanata da Francis Healy non si è mai allontanata dalla formula che le assicurò l’affetto del pubblico ormai vent’anni fa. Basti ascoltare il nuovo album, dal titolo referenziale ma adeguato: un piccolo scrigno di gemme di songwriting che esaltano il lato più essenziale e intimista del gruppo.

La top 10 di Alberto Campo

Run The Jewels, RT4
(Jewel Runners)

Al solito diffuso in modalità “paga quanto vuoi”, il quarto album realizzato dal produttore bianco El-P e dal rapper nero Killer Mike consolida un’alchimia artistica dal potenziale elevatissimo, generando hip hop che ha portamento da “vecchia scuola” hardcore e contenuti allineati all’attualità su scala Black Lives Matter.

Bill Callahan, Gold Record
(Drag City)

Intitola un pezzo Ry Cooder e nell’iniziale Pigeons si presenta dicendo “Salve, sono Johnny Cash”, salvo concludere con “Cordiali saluti, L. Cohen”. Speziato d’ironia, il nuovo lavoro del 54enne cantautore statunitense è un disco da sfogliare, come una raccolta di racconti di Carver musicata rievocando la Grande Tradizione Americana.

Moses Sumney, græ
(Jagjaguwar)

Cantautore soul allevato nel circuito indipendente, il 29ene artista californiano esplora la zona intermedia fra nero e bianco mettendo in discussione le appartenenze di razza e genere. Con grazia da Frank Ocean e grandeur da D’Angelo, s’iscrive di diritto nell’aristocrazia della black music contemporanea.

Beatrice Dillon, Workaround
(PAN)

Incanalando i suoni di una vasta gamma di strumenti acustici (tabla, sax, violoncello, contrabbasso, kora) nei circuiti del laptop, per poi sezionarli e ricombinarli sul canone ritmico dei 150 bpm, l’esordiente produttrice britannica ricava musica da club stilizzata: simile per attitudine a un dipinto divisionista.

Phoebe Bridgers, Punisher
(Dead Oceans)

Secondo album per la 26enne cantautrice californiana, artista (pre)destinata al successo che riformula con attitudine “millennial” e talento cristallino, dunque nitido e aguzzo, gli insegnamenti del Grande Maestro Dylan e del compianto Elliott Smith, transitando dal Laurel Canyon abitato da Joni Mitchell.

Fleet Foxes, Shore
(Anti-)

Pubblicato allo scoccare dell’equinozio d’autunno e corredato da un road movie d’impronta paesaggistica, il quarto atto discografico dei Fleet Foxes – ridotti nell’occasione al solo Robin Pecknold – espone argomenti da età adulta, rispolverando tuttavia l’immediatezza idilliaca degli esordi: un equilibrio ammirevole.

Oneohtrix Point Never, Magic Oneohtrix Point Never
(Warp)

“Intoccabile” del suono elettronico contemporaneo, il 38enne produttore statunitense Daniel Lopatin – coadiuvato nella circostanza da Abel Tesfaye, alias The Weeknd – simula su disco il flusso del palinsesto quotidiano della stazione radio Boston Magic 106.7, in lingua OneOSixPointSeven, origine del suo pseudonimo.

Yves Tumor, Heaven to a Tortured Mind
(Warp)

Nel terzo album della serie, il nomade statunitense Sean Bowie offre black music insieme sperimentale e smaccatamente pop, servendo un cocktail di glamour e radicalità in cui convergono lo Sly Stone dei momenti tenebrosi, il Prince più malfamato e la memoria remota dello Shuggie Otis di Inspiration Information.

Arca, KiCk i
(XL)

In copertina sembra Rosanna Arquette in Crash di Cronenberg e all’ascolto si dichiara immediatamente nonbinary. Arca è sinonimo di mutamento: anagrafico e sessuale, oltre che musicale. Dal radicale sperimentalismo degli esordi si sposta nell’occasione verso una dimensione quasi “pop”, con la benedizione di Björk e Rosalía.

Nick Cave, Idiot Prayer
(Mute)

Testimonianza di una performance dal vivo ai tempi del distanziamento, in solitudine all’Alexandra Palace di Londra: voce e pianoforte, nient’altro. L’ha definita: “Una preghiera nel vuoto”. E nell’unico inedito, Euthanasia, canta: “Perdendomi, ho trovato me stesso”.  Una bussola nei giorni del nostro smarrimento.

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