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“IRA” di Iosonouncane è più di un album «è un paesaggio da abitare»

Abbiamo intervistato Iosonouncane in vista dell’attesa fatica discografica in uscita il 14 maggio: un lavoro che arriva a commuovere

Autore Piergiorgio Pardo
  • Il11 Maggio 2021
“IRA” di Iosonouncane  è più di un album «è un paesaggio da abitare»

Iosonouncane, foto di Silvia Cesari

Esce venerdì, a distanza di circa sei anni dal fortunatissimo DIE, il nuovo intenso lavoro di Iosonouncane: IRA. Il disco è tra quelli per cui è stato riesumato dalla Sony Music Italia il glorioso marchio Numero 1, ma va ben oltre qualunque idea di cantautorato, anche quello meno classico e più avventuroso. Vi avevamo già detto come valesse la pena attenderlo stando al gioco e ora finalmente ci siamo.

L’atmosfera è da grande occasione e, dopo le esibizioni a Berlino e al Primavera Festival e la collaborazione con Paolo Angeli, Iosonouncane, al secolo Jacopo Incani, si conferma artista di caratura internazionale. Questa ora e 50 di musica avrebbe dovuto debuttare in forma di esecuzione integrale in teatro. In attesa del tour, sold out e rimandato al 2022, l’album riesce comunque a giocare le carte di un’espressività dai numerosi passaporti sensoriali ed emotivi.


A volte IRA ha la severità ancestrale di una scena di 2001 Odissea nello Spazio, altre il romanticismo escatologico del Lars Von Trier di Melancholia. A volte fa dell’ironia, a volte è psichedelico, notturno e francofono, altre si svuota in paesaggi minimali popolati di mille dettagli percussivi. Si fa umile e corale preghiera, quando irrompe in flussi sontuosi e marziali: concerto, rito, canto del capro, DJ set all’alba con tutto che sale.

Cover di IRA

Quella di IRA è “musica innocente”: nel senso che vi si percepisce un grande lavoro teso a donare all’ascoltatore l’esatta verità di ogni istante del processo creativo. L’artista e l’uomo vi si mettono in gioco in prima persona, come sempre, a cominciare dall’autoironia di un nome d’arte che, mai come oggi, comporta distanza dalle competizioni. Ecco un’anteprima dell’intervista a Jacopo, in attesa di leggere l’integrale sul numero di maggio di Billboard.


L’intervista a Iosonouncane

Cominciamo dalla superficie. Puoi spiegarmi la copertina?

Non credo di poter dire più di quanto non mostri lei stessa: un uomo nudo e completamente solo immerso in un buio fitto.

Di cosa parla IRA?

Potrei risponderti così: di solitudine, distanza, disperazione. Ma sarebbe probabilmente una risposta parziale e perciò falsa.


Ti sei sottratto al ruolo classico di cantautore “all’italiana”: i brani sono cantati in altre lingue.
Ho sviluppato una suggestione emersa nettamente con la stesura delle prime bozze. Le melodie vocali e i temi strumentali affidati a synth e mellotron mi hanno immediatamente restituito un senso di lontananza, di spaesamento profondo. È stato naturale ricercare una condizione di estraneità, riviverla attraverso la rinuncia alla mia lingua e, in parte, alla mia voce.

Che rapporto hai oggi con la forma canzone?

La utilizzo se necessario. Tutto qua. IRA è nato da tutt’altri presupposti. Non l’ho mai pensato come una semplice raccolta di canzoni.

Iosonouncane, foto di Silvia Cesari

Iosonouncane e l’ispirazione maghrebina

C’è in IRA una forte componente percussiva. Mi interesserebbe molto sapere come sono stati concepiti gli arrangiamenti delle percussioni, che danno un sacco di spinta “dal basso”, dalla terra, ma prevedono anche tantissimi suoni, elettronici e non, con le funzioni più diverse: colori, atmosfere, melodie, dinamiche. Sto pensando ad un pezzo come Ojos


Il suono scuro e profondo è emerso fin dalle prime bozze, di pari passo con le melodie, con l’idea di uno specifico linguaggio, con i numerosi temi strumentali fatti da synth, cori e mellotron. Ho ascoltato tantissima musica del Maghreb negli ultimi anni e probabilmente la spinta verso una pulsazione profonda arriva anche da lì. In IRA i beat sono spesso costituiti da pattern suonati all’unisono da più timpani, fra questi il dumdum della Guinea suonato da Mariagiulia Degli Amori.

Iosonouncane, foto di Silvia Cesari

Ogni singola parte è pensata per poter essere suonata interamente dal vivo. Ho quindi tenuto conto della reale eseguibilità di certe parti, soprattutto considerando che tutti i musicisti avrebbero dovuto nel frattempo cantare. Ci sono poi dei brani che sono nati da un lavoro sull’elettronica e sui quali la componente percussiva acustica si è aggiunta solo in un secondo momento. Ojos, per esempio, è nata dal campionamento di una voce, la mia: tutta l’evoluzione ritmica del brano è stata conseguente.

La sacralità del borgo medievale

Sempre in materia di coralità, ma in un altro senso, mi viene naturale chiederti del rapporto fra parti scritte, composizione istantanea e improvvisazione di insieme nella stesura di IRA.

IRA ha iniziato a prendere forma da lunghe sessioni di composizione istantanea alle quali mi sono dedicato in completa solitudine a partire dall’autunno 2016. In pochi mesi mi sono ritrovato ad avere una enorme quantità di bozze. Ho capito che avrei dovuto sviluppare la coralità del canto e che alla band che mi aveva accompagnato durante il tour di DIE, Serena Locci, Simone Cavina, Amedeo Perri e Francesco Bolognini avrei dovuto aggiungere due musiciste: Mariagiulia Degli Amori e Simona Norato.


A cavallo fra 2017 e 2018 abbiamo fatto diverse sessioni di prove, in cui ci siamo abbandonati anche a lunghi momenti di improvvisazione. Queste sessioni mi hanno permesso di definire strumentazione e ruoli all’interno della band e, sulla base di ciò, di sviluppare dettagliatamente gli arrangiamenti. Nel maggio 2018 ci siamo ritirati alla Tana del Bianconiglio, uno studio di registrazione a Montecchio di Peccioli, piccolissimo borgo medievale in Toscana. Per tre settimane abbiamo vissuto a stretto contatto e lavorato da mattina a sera, completamente immersi in una dimensione quasi sacrale.

Le registrazioni di IRA

Questo che hai descritto è l’ensemble dei musicisti che hanno materialmente suonato nel disco. Come si sono svolte le registrazioni?

Nel maggio del 2018 ci siamo ritirati alla Tana del Bianconiglio, uno studio di registrazione a Montecchio di Peccioli (piccolissimo borgo medievale in Toscana abitato da una manciata di persone). È stata un’esperienza incredibile, intensissima. Per tre settimane abbiamo vissuto a stretto contatto e lavorato da mattina a sera, completamente immersi in una dimensione quasi sacrale. Siamo usciti da lì con i provini di circa 15 brani, due dei quali esclusi poi dal disco. Per tutto l’anno successivo ho lavorato sul materiale registrato sia nel mio studio domestico che al Vacuum Studio con Bruno Germano. Ho cambiato parecchi arrangiamenti, rivisto tanti suoni, modificato alcune strutture e scritto nuovi brani. Abbiamo registrato percussioni, pianoforte, sintetizzatori, organo, campionatori, chitarre. Da giugno ad agosto 2019 mi sono dedicato totalmente alla scrittura dei testi (per i quali prendevo appunti da diversi anni) e dal primo settembre abbiamo iniziato la registrazione delle voci, protrattasi poi fino a metà dicembre.

Nel disco, infatti, aleggia una dimensione spirituale molto intensa, che fa pensare al Duke Ellington dei Sacred Concerts, o al Coltrane di Naima. È giusto considerare una tua fonte di ispirazione questa “ascensionalità” afroamericana?

Ellington e Coltrane sono tra i musicisti che ho approfondito maggiormente negli ultimi cinque anni. Ascension, nello specifico, è uno dei miei dischi preferiti di Coltrane. Ascoltarlo per intero significa condividere con l’autore un’impresa che mira a un superamento di sé stessi. Un’attraversata, un’ascesa. Alcune caratteristiche di IRA (anzitutto la durata complessiva e la lingua) hanno alla base questo stesso intento, questa stessa necessità.


Iosonouncane, foto di Silvia Cesari

Tra commozione e ambiente

Un altro filo rosso che ho rintracciato è quello di una dimensione romantica: penso ad Hiver, al cantato di Nuit, al finale di Sangre, ai temi di tastiere in Petrole e di Cri. In alcuni punti mi sono commosso: è normale?

Sicuramente è normale, ma probabilmente non comune.

Alcuni suoni mi sembrano altrettante trasfigurazioni di timbri legati all’ecosistema, all’ambiente. C’è davvero questa ispirazione?

Sì, assolutamente. Credo dipenda banalmente dal mio modo di concepire la musica come un paesaggio da abitare, un universo possibile a cui dare vita.


Come si sono svolte le ultime fasi della lavorazione del disco, dopo le sessioni a Montecchio?

Per tutto l’anno successivo ho lavorato sul materiale registrato sia nel mio studio domestico che al Vacuum Studio con Bruno Germano. Ho cambiato parecchi arrangiamenti, rivisto tanti suoni, modificato alcune strutture e scritto nuovi brani. Da giugno ad agosto 2019 mi sono dedicato totalmente alla scrittura dei testi (per i quali prendevo appunti da diversi anni) e dal primo settembre abbiamo iniziato la registrazione delle voci, protrattasi poi fino a metà dicembre.

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