Interviste

Morire, per poi tornare a Vivere: intervista a Francesco Motta

Dopo due anni di silenzio discografico, Francesco Motta torna a far sentire la sua voce con “Vivere o Morire”: nove tracce che raccontano bivi, scelte, che portano così ogni persona a vivere e costruire la propria identità

Autore Eleonora Lischetti
  • Il15 Aprile 2018
Morire, per poi tornare a Vivere: intervista a Francesco Motta

Il suo album di debutto, La Fine dei Vent’Anni, ha vinto il Premio Tenco 2016 come migliore opera prima. Dopo due anni di silenzio discografico, Francesco Motta torna a far sentire la sua voce con Vivere o Morire, in uscita per Sugar. Un disco nato dal silenzio: nove tracce che raccontano bivi, scelte, che portano così ogni persona a vivere e costruire la propria identità. L’anteprima del tour partirà dalla capitale, per sole quattro date: Roma, Bologna, Firenze, Milano, dal 26 al 31 maggio.

Motta (foto di Claudia Pajewski)

Incominciamo subito mettendoti ansia. Citando Caparezza, il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista.


Come mi è capitato sempre, è stato più difficile farlo che farlo ascoltare. Una volta che lo hai realizzato non puoi più tornare indietro! Sicuramente quello di Vivere o Morire è stato un processo più difficile: per certi versi non hai più la leggerezza del principiante, sei più consapevole di quello che stai facendo. Però questa consapevolezza mi ha dato una sicurezza in più per per capire la direzione in cui dovevo andare, che nel primo disco non c’era. Quindi Caparezza ha ragione, però tutti dischi generale sono difficili.

Il disco è molto denso: ha nove tracce e dura mezz’ora.


Ovviamente non vedo l’ora che le persone lo ascoltino – e lo ascoltino tutto, perché è un racconto che parte dal primo pezzo e finisce al nono. Questo ci tengo a dirlo particolarmente: siamo in un momento storico in cui abbiamo poca pazienza di ascoltare un album per intero. Io ce l’ho messa tutta per far sì che nessuna canzone fosse “in più”. Sono nove perché quelle erano le tracce giuste: alcuni pezzi non sono entrati nel disco. Non ce li ho messi perché non facevano parte di questo racconto.

Riesci a riassumere in trenta secondi qual è il racconto che sta dietro a Vivere o Morire?

Raccontarlo in trenta secondi è difficilissimo: ci ho messo trentatré minuti di tracce e due anni per scriverlo! Racconta storie che ho vissuto, storie che ho visto, racconta di inizi, fini e rigenerazioni. L’ho detto bene? (ride, ndr)

Qual è stata la stata la genesi del disco?


La prima canzone che avevo era La Nostra Ultima Canzone: l’ho scritta il giorno prima di compiere trent’anni. Dato che adesso non mi chiedono più com’è La Fine dei Vent’Anni ho cercato di dirlo io, com’è avere trent’anni. È stata comunque una gestazione lunga. Avevo pronti diversi testi e, per la prima volta nella mia vita, prima di iniziare a lavorare 24 ore su 24, mi sono preso un periodo di pausa. Ho passato un mese senza quasi pensare alla musica, senza pensare a “fare le canzoni”. Una sorta di riposo per avere la calma necessaria per mettermi a riascoltare quello che avevo scritto in quei due anni.

Un disco meno impulsivo rispetto a La Fine dei Vent’Anni?

Non necessariamente. Quando si imparano delle cose, ci si sente più responsabili. E in questo disco la produzione e le parole sono state più mie, senza nulla togliere a Taketo Gohara, con cui l’ho prodotto.

Com’è stato lavorare al suo fianco?


Bellissimo! Io sono stato a tratti insopportabile nella lavorazione del disco. Ci sono stati momenti tragici, sono completamente bipolare. Scrivo una canzone: mi piace, dieci minuti dopo penso sia la canzone più brutta della mia vita, una settimana dopo mi va bene… a volte! Taketo mi ha accompagnato in questo percorso soprattutto a livello psicologico. A volte parlare di musica con i musicisti è molto più importante che suonare: sentirsi dire le cose giuste nel momento giusto, la condivisione dei silenzi, delle parole, anche con i musicisti che suonavano con me. Taketo inoltre è stato colui che mi ha portato a New York in uno studio meraviglioso a registrare con Mauro Refosco, a conoscere Stefano Nanni (l’arrangiatore degli archi presenti nel disco, ndr). È stato un onore lavorare con lui.

Motta (foto di Claudia Pajewski)

Come Siamo Diventati è una delle tracce più interessanti del disco: cosa è diventato Francesco dopo il grande successo del disco d’esordio?

A volte la voglia di rimanere coi piedi per terra mi ha portato a far finta che non stesse succedendo niente, soprattutto per i primi mesi. Poi è arrivata la consapevolezza: mi sono reso conto che non solo ero cambiato io, ma anche le mie canzoni! Stavano arrivando a più persone e ne ero molto contento. Ma Come Siamo Diventati non parla solo di quello. Questa non te la saprei riassumere in trenta secondi! Non ti saprei nemmeno dire di cosa parla, perché è quasi un “non spiegarsi”.

Aprirai l’anteprima del tour al Monk di Roma, la città che ti ha adottato.


Quelli che hanno visto i concerti passati sanno che quello che facciamo dal vivo è abbastanza diverso dal disco: è bello cambiare, rigenera le canzoni che sono già state ascoltate. Sicuramente ci saranno momenti molto intimi perché alcune canzoni sono accompagnate da una musica che è meno rock. E quei momenti saranno i più emozionanti.

Grande attenzione nei tuoi brani è data alle percussioni: sempre molto particolari e curate. Ad esempio la coda di E Poi Ci Pensi un Po’.

Quel finale è proprio un pezzo di musica cubana: nasce dal mio interesse per l’uso delle percussioni africane, ma messe in una visione occidentale, come la mia. Forse questo mio uso delle percussioni è nato non per un’esigenza di emulazione ma perché quando registravo il primo disco lo studio era talmente piccolo che la batteria non ci entrava fisicamente! Quindi forse è nata così, per necessità. Poi mi ci sono affezionato.

Qual è l’ambiente che preferisci avere attorno quando lavori?


Non ho delle vere e proprie regole. Da quando mi sono trasferito, ho avuto la fortuna di realizzare uno studio in casa: c’è una bella energia che mi ha portato a lavorare bene. In generale, una cosa che mi fa stare bene è stare nello stesso luogo. È per questo che solitamente in tour non riesco a scrivere. Un caso raro è stato quando eravamo a Parigi: avevo tante idee in testa che ho fatto una passeggiata. Da lì sono nate le nove strofe di Vivere o Morire. Mi sono uscite in una mattinata! Cosa che a me non succede mai.

Cosa vuol dire per Francesco Motta Vivere o Morire?

Ammazza oh! Dici che me la sono cercata con un titolo del genere? (ride, ndr) È una sorta di divisione binaria della vita dell’uomo, fatta di scelte, di sì o di no che portano a decisioni che formano la personalità che uno ha. Che ti fanno capire quello che sei diventato.


Ascolta Vivere o Morire di Motta in streaming

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