Musica

I migliori album del 2020: le top 10 della redazione di Billboard. Parte 2

L’annus horribilis 2020 volge al termine. Ma quest’anno non è mancata la grande musica: ecco le nostre personali top 10 degli album

Autore Billboard IT
  • Il1 Gennaio 2021
I migliori album del 2020: le top 10 della redazione di Billboard. Parte 2

Djeneba Aduayom/Billboard

Abbiamo deciso di ripercorrere gli ultimi dodici mesi di uscite discografiche per selezionare gli album a nostro giudizio più validi del 2020. Dopo la prima parte, ecco la seconda, con le top 10 di Toma e Ivic.

La top 10 di Tommaso Toma

BONNY LIGHT HORSEMAN

Bonny Light Horseman


(37d03d / Goodfellas)

Il 2020 si era aperto con un gioiellino di folk music. Tanti sarebbero stati gli album di derivazione folk di ottima fattura che ci avrebbero accompagnato durante l’anno, tanto per nominarne una manciata: Head Above The Water di Brigid Mae Power, l’intenso Old Flowers di Courtney Marie Andrews (con il capolavoro If I Told) e da ricordare l’arpa magica di Mary Lattimore nel mistico Silver Ladders. Ma questo “supergruppo” composto dal cantante dei Fruit Bats Eric D. Johnson, l’abile multi strumentista Josh Kaufman e la brava folksinger Anaïs Mitchell, ci ha davvero ammaliato con la gentilezza compositiva delle dieci tracce del loro omonimo album di debutto che riesce a evocare le coordinate storiche sulle quali si è mosso per quasi cent’anni il folk, come le parabole bibliche e i suoni dei monti Appalachi e d’Irlanda. E senza mai cadere in un pedante manierismo. Prezioso, e degno di un posto in top 10.


TAME IMPALA

The Slow Rush

(Caroline / Self)

Prima che il Coronavirus cambiasse le nostre vite, ecco che nel giorno di San Valentino era arrivato il tanto atteso seguito di Currents che era uscito nel 2015, intanto Kevin Parker era diventato una rockstar: villa favolosa, matrimonio trendy, una notorietà quasi da riviste gossip. Eravamo preparati a una caduta nell’ovvietà e nei cliché e invece The Slow Rush è un album vivo che parte esattamente da dove ci avevano lasciato i Tame Impala: (On Track, la sinuosa Lost In Yesterday). Ma soprendentemente Kevin cita Supertramp (Borerline), Daft Punk (Glimmer), il funk di Rick James (Is It True). Non lo abbiamo fatto allora ma alla fine un giorno balleremo questo disco. Promesso.

KELLY LEE OWENS

Inner Song


(Smalltown Supersound /Goodfellas)

Avevamo appuntamento con lei sabato 29 febbraio al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, i ragazzi dell’organizzazione Le Cannibale avevano preparato nel giorno di Carnevale un suo atteso DJ set  – al fianco delle opere dell’artista portoghese João Onofre, che ha esposto in luoghi mitici come il Moma di NYC e il Palais de Tokyo a Parigi – e dove Kelly dove avrebbe presentato in largo anticipo alcune tracce del suo futuro secondo album. Noi l’avremmo dovuta fotografare per la nostra rubrica Portrait Of, ma come sapete la Lombardia era appena entrata nell’emergenza Covid-19 e tutto saltò. Inner Song sarebbe poi uscito il 28 agosto e ci saremmo accorti da subito che l’attesa di ascoltarla era giustificata. Un album di techno cristallina e sognante, con le sue eleganti divagazioni pop. E pensare che Kelly Lee Owens aveva concepito l’album sotto le peggiori premesse: uno stato depressivo e post traumatico. Ecco, ancora una volta la musica è il miglior balsamo al dolore. Kelly, quell’appuntamento saltato è solo rimandato.

NICHOLAS JAAR

Cenizas

(Other People)


Il primo instant record dell’era Covid, queste difatti le parole di Jaar che acompagnarono il lancio: “voglio che questa musica guarisca e aiuti a pensare a domande difficili su se stessi e sulla relazione con lo stato delle cose. Viviamo in un tempo di completa trasformazione, metamorfosi e anche le trasformazioni stanno avvenendo dentro di noi”. Le ceneri evocate nel titolo creano un legame indissolubile con la spiritualità, elemento trascendentale che è sempre stato forte negli artisti sudamericani. Uscito in digitale il 27 marzo (e successivamente in una elegante edizione in vinile) questo intenso lavoro rimarrà negli anni.

DESTROYER

Have We Met

(Dead Oceans /Goodfellas)

Sono 25 anni che il canadese Dan Bejar ci regala musica pop sofisticata, agrodolce nei testi e vagamente malinconica. Kaputt del 2011 rimane il suo più bello e Poison Season (2015) il suo più ambizioso. Ma questo album ci trasporta in una extradimensione lynchiana, che è leggermente clasutrofobica – come la sensazione che proviamo durante i periodici lockdown – ma per fortuna mai angosciante. Il tono blasé della voce di Dan sdrammatizza tutto anche i testi più apocalittici, come sapeva fare decenni fa Morrissey e che oramai è un lontano ricordo perchè al cantore d’Albione è subentrata un’asprezza cronica di umore. Dan Bejar è il crooner che vorrei trovare in un locale nascosto della mia città, il giorno che potremmo fare nuovamente notti bianche. Nel frattempo, godetevelo in top 10.


FONTAINES D.C.

A Cult Hero

(Partizan /Self)

Quest’anno abbiamo assistito a un ulteriore incremento delle vendite del vinile e addirittura delle cassette. La band del fascinoso Grian Chatten che a tratti ricorda fisicamente Ian Curtis, è una delle punte di diamante della piccola ma interessante rinascita – molto made in England – del post punk più umbratile, talvolta eccessivamente muscolare e questo genere di musica ha nel formato fisico la sua perfetta dimensione. Difatti abbiamo visto comparire diverse versioni di A Cult Hero, dal vinile colorato all’edizione in doppio 10”, un formato poco diffuso ma amato da chi compra vinili. Questa dimensione estetica e sonora evocata da band come Fontaines D.C, Porridge Radio, Shame, Idles, Working Men’s Club è lontana anni luce dal mondo contemporaneo, eppure affascina ancora non solo i Boomers ma anche la Gen Z.

KHRUANGBIN

Mordechai


(Dead Oceans /Goodfellas)

Il mio disco dell’estate 2020. Ho avuto la fortuna di mettere musica tutti i venerdi di luglio e agosto per il progetto Karmadrome nel cortile esterno di Base Milano, alla fine è stata una stagione bellissima, sempre sold out e nel pieno delle regole sanitarie (demistificando così il giornalismo più sensazionalistico della scorsa estate). Il trio multietnico di Houston ha saputo concentrare dosi di musica thai, i ritmi dell’Africa equatoriale, il dub, un poco di psichedelia, Serge Gainsbourg, Tom Tom Club e folklore messicano, per un cocktail sonoro irresitibile e freschissimo. Sono anche belli da vedere i Khruangbin: c’è la sinuosa Laura Lee che suona il basso, il chitarrista Mark Speer che pare uscito da un b movie anni 70 e infine il compassato ma supercool batterista Donald “DJ” Johnson. Li abbiamo intervistati nel numero di luglio agosto, per l’appunto. E ora li ritroviamo in top 10.

ONEOHTRIX POINT NEVER

Magic Oneohtrix Point Never

(Warp Records / Self)


“Daniel Lopatin ama la radio e Magic 106.7 di Boston, funge da volano per un flusso di coscienza intrigante che spesso si trasforma in musica piena di rimandi agli anni ’80 e ’90. Forse Magic OPN è il suo album più “facile”, Long Road Home sfodera echi gregoriani e gli struggimenti di I Don’t Love Me Anymore ricordano un altro talento, Neon Indian”. Questa è la recensione che leggete nel numero di novembre di Billboard Italia e la scrissi quasi di getto, appena uscì questo doppio LP. Spesso noi critici musicali ci lasciamo trasportare dall’entusiamo immediato, ma in questo caso confermo tutto, anzi, Magic OPN non è solo l’abum più “facile” di Lopatin, ma il suo migliore di sempre.

IL QUADRO DI TROISI

Il quadro di Troisi

(Ratster)

Il mio personale disco dell’anno italiano, in un anno comunque ricco di qualità permettetemi di segnalare un album certamente non celebrato dalle classifiche ma che vale la pena scoprire prima che sia troppo tardi. Si tratta del nuovo progetto synth pop del favoloso producer di musica elettronica Donato Dozzy ed Eva Geist, insieme omaggiano e reinterpretano la tradizione musicale e cinematografica italiana. Canzoni elegantemente arrangiate che richiamano a Battiato, Alice, Matia Bazar e Battisti degli anni ’80. Un album favoloso che non essendo uscito per una major non ha avuto nessuna spinta promozionale. Raggio Verde è un capolavoro synth pop che piacerà a chi oggi impazzisce per Tommaso Paradiso e quando è in vena di anni ’80 ma farà felice chi pensa che dischi come La Voce del Padrone di Battiato non ce ne saranno più in circolazione. Una scelta retrofuturista certamente, ma in anno così particolare, concedetemela.


THE AVALANCHES

We Will Always Love You

(Astralwerks / UMG)

Arrivato in zona Cesarini, questo è il disco che non ti aspetti e quindi sorpredente. Celeberrimi per la loro “lentezza” produttiva gli aussie Tony DiBlasi e Robbie Chater hanno aspettato solo 4 anni dal loro precedente e notevolissimo Wildflower. A pensarci su, sono tutti e tre dei capolavori, gli album degli Avalanches. Una discografia risicata nell’arco di 20 anni ma straordinariamente importante. Come avevamo già intuito in Wildflower, il duo non solo dimostra la sua abilità nel sampling ma anche conferma un’evoluzione compositiva che si disvela traccia su traccia in questo ricchissimo album (doppio in vinile), colmo di superospiti ma anche di idee. Ci vorrà un bel pezzo di 2021 per assimilare bene We Will Always Love You e presto leggerete sulle pagine di Billboard Italia un’intervista al duo.

Buon anno e vi lascio anche una playlist ad hoc, alla prossima top 10.


Non solo top 10: la playlist Best of 2020

La top 10 di Damir Ivic

Idles, Ultra Mono

Non l’uscita più raffinata del 2020, non certo la più innovativa e, a dirla tutta, nemmeno la più sorprendente. Però gli Idles “Ultra Mono” è una conferma pesante, imponente; e per noi tutti è la possibilità di puntare le nostre fiches (di nuovo) su un gruppo con l’urgenza anche politica di esprimersi, senza accontentarci del pop / hip hop di taglio black ormai prevedibile ed addomesticato anche quando tamarro.

Sondre Lerche, Patience

Sondre Lerche è uno dei grandi misteri della musica negli ultimi vent’anni. Voce meravigliosa, scrittura piena di invenzioni e raffinatezze, pure un bell’aspetto e – last but not least – un bellissimo modo di fare lui come persona. Perché ancora adesso non sia diventato una star gigantesca – in favore di simpatici inutili alla Sheeran – resta inspiegabile. O, purtroppo, pure troppo spiegabile.

Fiona Apple, Fetch The Bolt Cutter

Va bene, ne hanno parlato tutti perché Pitchfork ha battezzato questo disco con un “10”; e va bene, forse un “10” non se lo merita. Resta il fatto che nessuno si aspettava un ritorno così ricco e convinto (di più: forse nessuno si aspettava proprio un ritorno), ed ogni singola cosa in questo album è messa al posto giusto ed è fatta magari non con grandissimo senso di innovazione, ma con superbo artigianato.

Populous, W

Il miglior disco italiano dell’anno. Perché internazionale nei suoni, eccezionale nella qualità produttiva (va ascoltato in cuffia, per cogliere le mille finezze), ispiratissimo, schierato su un tema importante e gettonato quest’anno come non mai, quello della figura femminile nella società contemporanea e nei suoi sistemi di produzione, ma non in modo noioso, prevedibile o didascalico.


Run The Jewels, RTJ4

Il miglior disco hip hop dell’anno. Perché riesce ad essere dannatamente incisivo senza diventare moralista, perché profondamente predicatorio ma spiazzando spesso i convertiti, perché i suoni da apocalisse del terzo millennio trovano il giusto equilibrio tra sperimentazione, innovazione, comunicatività, impatto. Il miglior album in assoluto di un duo che, già di suo, è da anni un patrimonio assoluto del rap.

Autechre, Sign

La versione più signorile e, volendo, anche la più imborghesita degli Autechre: e allora? Invece di essere un difetto, diventa la chiave per (ri)trovare gli equilibri più appropriati tra avventurismo solipsista e sapienza nel disegnare la colonna sonora aliena della nostra contemporaneità. Non forse il loro miglior disco, ma di sicuro il primo che dopo anni potreste regalare anche ai vostri amici che non li conoscono.

King Krule, Man Alive

Un talento strabordante che gioca a nascondersi. Man Alive è, ancora una volta, qualcosa che da lui non ti aspetteresti; ma più del solito, è una fotografia di un artista che fa di tutto per non scegliere la via più facile, la più fruttifera, la più conveniente foss’anche solo per avere una rendita di posizione nei territori più alternativi. Atipico in tutto, ma ancora una volta fa centro – dando l’idea di aver fatto di tutto per mancare il bersaglio.

Speranza, L’ultimo a morire

La nuova voce forte dell’hip hop italiano. La trap passerà, la vacuità divertente, avvolgente ed ipnotica di certe sue voci ad un certo punto – manca poco – smetterà di sedurre, saranno in grado di restare nel tempo solo gli MC in grado di imporre piglio, personalità, riconoscibilità, durezza. In queste quattro categorie Speranza potrebbe aprire dei seminari. Prendendo a male parole gli iscritti, ma volendo comunque loro bene.


Technoir, Never Trust The Algorithm

Semplificando: i Tv On The Radio italiani. Partiti con più di un occhio alla musica black intelligente tanto in voga ora in determinate nicchie d’appassionati, il duo composto da Jennifer Villa e Alexandros Finizio ha acquistato passo dopo passo sempre più personalità e capacità di percorrere trasversalmente molto panorami musicali contemporanei. Questo album ne è una dimostrazione algoritmica, pardon, algebrica.

Kruder & Dorfmeister, 1995

Chiudiamo la top 10 con Kruder & Dorfmeister. Che sia vera o meno la storiella del DAT misteriosamente e casualmente recuperato dal nulla, a riportare in superficie musica composta e rifinita più di vent’anni fa, sta di fatto che “1995” scorre a meraviglia, suona classico invece di suonare datato (pur stando in un filone che ha fatto dell’idea di futuro o anche solo di contemporaneo sempre la propria ragione sociale) ed ancora oggi assesta robuste lezioni di stile e gusto.

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