Hip Hop

Speranza è il rapper “duro e puro” di cui abbiamo tutti bisogno. L’intervista

L’Ultimo A Morire uscito ieri è il suo primo album. Abbiamo affrontato molti temi con Speranza, a partire dalla necessità di essere veri

Autore Silvia Danielli
  • Il17 Ottobre 2020
Speranza è il rapper “duro e puro” di cui abbiamo tutti bisogno. L’intervista

Speranza, foto di Roberto Graziano Moro

L’hype di Speranza, al secolo Ugo Scicolone, è talmente alto da almeno un paio d’anni che sembra incredibile che quello che è uscito ieri sia soltanto il suo primo album. Il tour del rapper italo-francese insieme a Barracano e Massimo Pericolo di un anno fa era considerato assolutamente imperdibile e nei mesi scorsi era già andato in tv ospite dell’Assedio di Daria Bignardi.

Il suo debut album s’intitola ironicamente L’ultimo a morire e in queste settimane erano già usciti come appetizer alcuni brani: Iris, quasi (sottolineaiamo: quasi) un brano d’amore e l’aggressivo Fendt Caravan. Ovviamente di aggressivo Speranza dal vivo non ha proprio niente. Anzi, è esattamente il contrario: estremamente gentile, affabile, dalla risata bonaria. Ci incontriamo nel quartiere Nolo di Milano, tra viale Monza e via Venini, a metà settembre, quando era ancora piacevole stare all’aperto a bere qualcosa fuori dai locali. Ugo e la sua crew di lavoro (ma anche e soprattutto amici) mi raccontano subito che amano venire qui (ma anche in Barona) quando vengono a Milano, perché ricorda loro le zone che più amano in giro per l’Italia e la Francia. Zone miste e piene d’energia, in continuo fermento per le nuove aperture di locali e le iniziative di quartiere ma ancora ricche di immigrazione.


Quella di Speranza, mamma francese e papà italiano, è un’interessante storia di immigrazione al contrario. Nato in Francia, nel 1986, al confine con la Germania, a Behren, paese dormitorio per coloro che lavoravano in miniera, ha deciso di tornare a vivere a Caserta già qualche anno fa, la città di suo padre. Il francese fluisce perfettamente miscelato all’italiano o al casertano, nel suo flow tagliente.

Vedi delle differenze madornali tra il rap francese e italiano oggi?


No, finalmente anche l’Italia è riuscita a creare la sua identità con tante sfumature, prima si guardava sempre e solo all’estero. In Francia già negli anni ’80 c’erano i fenomeni rionali e i ragazzi riuscivano già ad esprimersi, ora ci siamo arrivati anche in Italia e qui ha iniziato ad affacciarsi la voglia di reale, di vissuto.

Questo ha comportato anche tanti fenomeni fake: tanti rapper che facevano finta di esser vissuti…

Certo, certo ma questo diciamo che a me non interessa molto. Non li considero neanche.

In questo tuo album invece compaiono pezzi da novanta che immagino ti piacciano da un po’: Tedua, Guè, Massimo Pericolo…


Sì, ne sono contento. Guè è stato proprio il primo a segnalare il mio nome in alcune interviste e Tedua ha risposto immediatamente alla proposta di collaborare. Con Massimo Pericolo ero anche andato in tour: si sono creati dei bei legami. Un altro con cui ho collaborato (per il brano Sciacalli, ndr) e con cui mi capisco al volo è Noyz Narcos, che fa hardcore da sempre ed esprime proprio questa voglia di realtà.  

Speranza, non ti sembra che nel 2020 la gente possa aver bisogno di sentire rappare di realtà piuttosto che di orologi e macchinone? Nel tuo album la musica sembra tornare ad avere un senso di rivalsa anche culturale non solo economica.

C’è stata questa parentesi di spacconeria e ora fa proprio parte dell’identità del rap italiano di oggi, non voglio giudicare. Se tu pensi che le mie canzoni possano avere un messaggio e che qualcuno possa pensare di dedicarsi alla musica piuttosto che mettersi in brutte situazioni di strada, che dire? Non può che farmi piacere.

Se non ti fossi dedicato al rap, pensi che avresti scelto situazioni al limite della legalità?


Diciamo che un dito nell’ingranaggio lo abbiamo messo in passato, ma per fortuna non ci siamo lasciati travolgere. Il rap mi serve proprio per raccontare anche quello che ho realmente vissuto.

Anche il lavoro ti ha aiutato? Speranza hai raccontato che fino a pochi mesi fa non volevi mollare assolutamente il tuo impiego da muratore.

Altroché, è fondamentale per le persone. L’ho messo in pausa solo per l’uscita di questo disco ma fino a dicembre ero impegnatissimo. Non era facile: finivo i live, tornavo a casa, disfavo la valigia e andavo a lavorare. Non potevo certo lasciarlo: che ne sapevo di come sarebbe andata? Io ci ho sempre tenuto moltissimo. Per farti capire: una volta ho perso il giubbino a Roma Tiburtina e sono impazzito solo perché avevo le chiavi del posto dove dovevo andare a lavorare il giorno dopo. Grazie a dei ragazzi sono riuscito a ritrovarlo!

Hai poi detto di essere credente anche se continui a sbagliare…


Certo, tutti sbagliano! E credere aiuta, non mi vergogno a dirlo. Qualsiasi cosa dia un’energia positiva è benvoluta.

Sempre a proposito di impegno: all’interno di Casertexas rappi “Due barre di silenzio per le vittime di Gaza”. Non è facile sentir parlare di temi politici internazionali al giorno d’oggi.

Ho un sentimento di compartecipazione per tutte le situazioni estremamente difficili. Ho citato Gaza ma potevo nominare il Kosovo. Non volevo fare un discorso politico. Quando vedo gente che soffre ne sono toccato nel profondo. E poi sono per l’indipendenza dei popoli.

Speranza, parli spesso di gitani anche, e usi la parola zingaro, che non è molto politically correct in genere, ma detto da te non fa affatto una brutta impressione.


Perché è giusto chiamare le cose con il proprio nome, non c’è niente di dispregiativo in questo. Possono chiamare noi tre terroni, e non c’è nessun problema. L’importante è non aggiungere malizia. Ma le cose peggiori vengono dette quando c’è l’ignoranza.

C’è un brano poi che si intitola Puttana

Anche lì: che problema c’è? Le donne si chiamano così tra loro e non vedo che problema ci sia se io chiamo tante amiche così, con affetto. È un po’ per andare contro il modo di cantare la donna con mosceria.

Iris, il primo singolo, con Rocco Gitano, racconta di un amore rom?


Non proprio. È un’idea, un’immagine di un sentimento che non si realizzerà mai.

L’intervista completa sarà sul numero di novembre di Billboard Italia.

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