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Nerone: «Non farei crescere mio figlio in Italia ma gli farei vedere Milano»

Esce Radici, il nuovo singolo con Clementino. Nerone ci racconta in esclusiva che cosa significhi essere Dogofieri e amare la pizza fredda

Autore Filippo Motti
  • Il16 Dicembre 2020
Nerone: «Non farei crescere mio figlio in Italia ma gli farei vedere Milano»

Nerone / ph: Adriana Tedeschi

Roots, radici. Concetto cardine del Rap con la R maiuscola, ma che a ben guardare ritroviamo anche nelle proposte artistiche più attaccate dai puristi del genere. I riferimenti alle origini si fanno infatti strada anche tra VVS e file di zeri, troppo porosi per arginare la presa di certi angoli e ricordi. Anche perché «senza radici l’albero cade», come ci insegna Marracash. Una lezione che Nerone ha seguito attentamente.

Radici è infatti l’ultimo pezzo ufficiale pubblicato dal rapper milanese, che ha unito le forze con Clementino per una panoramica sul senso di appartenenza locale e spirituale ai propri spazi. Gli stessi che plasmano rime e immaginari come argilla.


Ad impreziosire uno dei brani più interessanti di fine 2020 ci pensa un altrettanto valido videoclip ufficiale, uscito oggi alle 14. Il giusto mix di barre e immagini per coronare una delle tappe più significative della carriera recente di Nerone, che dopo l’apprezzata Bataclan con Fabri Fibra riconferma un ottimo stato di forma al fianco di un altro nome importante della scena come Clementino. Due artisti diversi, ma legati da alcuni punti di contatto – uno su tutti un passato condiviso nel freestyle – esaltati in Radici. Con un concept così aderente alla culture, ci saremmo stupiti del contrario.

Ci siamo fatti guidare attraverso questa alchimia dallo stesso Nerone, che non si è risparmiato dall’offrirci una panoramica completa tra passato e futuro. È da Radici che, ancora una volta, si riapre il cerchio.


Clementino e Nerone (ph: Adriana Tedeschi)

Partiamo dalle immagini. Già il visual video pubblicato prima del clip ufficiale era ricco di riferimenti al mondo del pallone (da San Siro a Maradona). Si sosta molto anche sull’idea di transito e trasporto – penso alle riprese di viali e tram, come il 9 di Milano. Viene spontaneo rifarsi alla barra del pezzo «sui vagoni quanti viaggi tutti frastornati». Che Milano e che Napoli avete voluto raccontare?

Abbiamo cercato di unirle con dei tratti, come le stazioni dei treni. Poi ognuno ha messo quello che voleva della propria città. Fai conto che siamo scesi a Napoli il giorno dopo della morte di Maradona. La città era in delirio. Clemente non poteva andare nei posti super affollati, se lo sarebbero mangiato. Abbiamo preferito rimanere nella sua zona, tra i posti più significativi. I passaggi da Milano a Napoli sono alternati da dei volti. Nella mia strofa sono tutte persone a cui tengo: Axos, Biggie Paul, i miei amici. In quella di Clementino ci sono più facce di persone caratteristiche, che raccontano meglio le radici della città. Quindi nel playback di Clementino ci sono le sue radici, e nelle immagini dei volti quelle di Napoli. Mentre le mie radici sono nelle facce, quelle di Milano nelle immagini della città.

Da Gemini a TikTok

Gemini è uscito più di un anno fa. Com’è invecchiato quel disco?

Bene, ho ancora delle speranze per quel progetto. Le prossime cose che sto preparando potrebbero dargli un altro piccolo calcetto nel culo. Il disco è stato comunque apprezzato sempre di più con il passare del tempo. Mezza Siga ad esempio su Spotify non arrivava al milione, ma con l’uscita del video ha raggiunto 3 milioni e mezzo. E parliamo di 6/7 mesi dopo.


Clementino e Nerone (ph: Adriana Tedeschi)

Di recente Manuel Agnelli ha tuonato contro chi sostiene che l’unico modo per farcela nella musica sia passare dai tormentoni e dalla massima visibilità social. Ci sono altre strade, a suo dire, per costruirsi una fan base appagante (e pagante). La tua carriera ne è un buon esempio.

Ha ragione. I Sex Pistols hanno fatto un album solo. Marra lo aspettavano da anni. Sfera è stato zitto 3 anni. Fibra sta facendo le strofe nei dischi dei colleghi che rispetta per tenersi su mentre prepara il disco, ma nemmeno lui è uscito con l’album. La verità è che forse un tempo non c’erano “gli scarsi” che puntavano all’immagine. L’immaginario era sempre abbinato al talento, o comunque portava a una rottura tale da diventare culto. Secondo me adesso l’industria musicale ha fatto un sacco di passi avanti, ma quando guadagni in qualcosa perdi in qualcos’altro. È pieno di figure con un immaginario molto forte che conquista, quindi poi te lo ritrovi dappertutto. TikTok e Instagram sono piattaforme molto più di immagine che di musica. L’arrivo di un nuovo social network porta sempre nuovi mestieri: tutti fotografi con Instagram, tutti scrittori con Twitter, tutti rapper con MySpace.

Nerone e il freestyle

A proposito di immagine, sei riuscito a far abbracciare la tua visione artistica anche a chi continuava a vederti solo come un freestyler?

Credo di sì. Me lo chiedono sempre meno e ai miei concerti non lo faccio più. Dico da sempre che questa roba mi stava sul cazzo, e il fatto che i fan lo stiano accettando significa che rispettano il mio volere. Anche perché onestamente ha raggiunto un livello alto. Non sono forte come i freestyler di adesso.


Non sei il primo che me lo dice.

È un’arma a doppio taglio. I ragazzi di oggi hanno deciso di trasformare il freestyle in un lavoro. Io l’ho sempre usata come vetrina per mostrare i miei lavori, che erano poi altro. Ora si sono formate delle crew di freestyler che vendevano serate nei locali dove venivano dei ragazzi in gruppi di 5/6 e facevano freestyle tutta la sera, dopo essersi preparati dei piccoli show. Erano anche interessanti, ma ci sono dei rischi.

Quali?

Se le serate si fermano, per Covid o altro, finisce tutto. Poi la costruzione dei pezzi rap nel freestyle è sempre stata penalizzante, quindi magari ci stai guadagnando da vivere, ma ci stai smenando in rap. Noi forse non abbiamo mai fatto i soldi con il freestyle, ma ci abbiamo guadagnato poi in esperienza scenica e conoscenza. Rispetto quello che fanno, ma spero che si costruiscano anche una carriera discografica. Al momento il freestyle non basta, come in tutti gli sport. Magari trovi i freestyler sponsorizzati Redbull, ma non giocano nel Barcellona.


Nerone e il rappato napoletano

Che rapporto hai con la Napoli del rap?

Quando ero piccolino si andavano ad aprire gratis i concerti. Ricordo che ho aperto un live dei Co’Sang, sono molto affezionato a loro, da Into Rione, Vita Bona, Indy Geni… poi Clementino, anche Rocco Hunt l’ho conosciuto veramente presto. Il napoletano mi affascina, mi sarebbe piaciuto andare a vivere 10 anni a Napoli per impararlo ed avere una lingua in più da utilizzare.

Anche nel rappato?

Sì sì, sono un feticista delle parole. Il napoletano elide l’ultimo termine, quindi è semplice usare maschile-femminile-plurale-singolare. La possibilità di chiudere più rime in due parole ti rende molto americano. Clementino quando rappa in napoletano sembra Snoop Dogg.


Un aneddoto su Fabri Fibra

Torniamo a te. È cambiato il tuo modo di scrivere rispetto al passato?

Stando a contatto con me stesso non vedo grossi cambiamenti. Percepisco semmai l’approccio al microfono, la maniacalità nel fare certe cose, il fatto che mi prendo molto più tempo per riflettere. Anche se in realtà non sono uno che rimane tanto su una strofa, non ci sto sopra 3 giorni. Ne parlavo anche con Fibra l’ultima volta che ci siam visti. Siamo entrambi feticisti della pizza fredda.

Cioè?

Tu ordini la pizza mentre stai scrivendo la strofa. La pizza arriva, ma tu non hai ancora finito, e non la mangerai finché non avrai chiuso quella strofa. Quindi alle 2 di mattina ti ritrovi a mangiare una pizza fredda lasciata lì dalle 20. È un po’ l’emblema di chi non si alza finché non finisce una roba. Poi non è detto che sia quella definitiva, in studio ci si confronta molto quando si registra. Sono migliorato anche da questo punto di vista, ho imparato a lavorare di più sulla musica. Io sono comunque un paroliere, e non mi sono avvicinato al genere per la sonorità. Ho scelto il rap perché era quello che parlava di più.


Le cose sono cambiate parecchio…

Con l’arrivo della trap la musicalità ha dato un sonoro sberlone al significato. Mi fanno ridere tutti i perbenisti che cadono dal pero su quello che scriviamo. Sono anni che si dicono certe cose. È stato detto e ridetto tutto. Non puoi andartela a prendere con l’ultimo che hai sentito.

Qual è la tua barra preferita di Radici?

«Non ho niente di speciale, sono solo io».


Dogofiero

Facciamo un passo indietro. Da buon milanese, appartieni a quella generazione di rapper forgiata dal culto della Dogo Gang. In Bataclan omaggi Vida Loca. C’è una realtà italiana che è riuscita ad appassionarti in modo simile?

Difficile dirlo. Tutto ciò che porto dietro della parte Dogo Gang è una reminiscenza street d’infanzia. Anche Ernia, Tedua e Rkomi sono legati a quel filone. Te ne accorgi dal fatto che a Milano se non dici un cazzo sei scarso. È un’impostazione che ricevi fin da ragazzino. Devi sempre metterci qualcosa dentro. Non ci sono cazzi, nemmeno per te stesso. Alla fine della registrazione, anche se hai fatto la hit, ma non dici niente, penserai sempre di aver fatto cagare. Non ce la faremo mai a non dire niente. Non c’è un Guè, un Marra, un Jake, un Emis, un Lazza o un altro milanese che non dice un cazzo nella musica, non esiste.

L’impatto del collettivo rimane incommensurabile.

La Dogo Gang ha inserito degli elementi che sono diventati obbligatori per tutti. L’idea di portarsi dietro la famiglia, il fatto che se ce la fa uno ce l’hanno fatta tutti… è molto Dogo.


Fanno sempre riflettere tutte le ramificazioni che son partite da quella realtà, da Marracash a Tanta Roba.

È la roba più americana che si potesse fare. È quell’immaginario à la Dipset. Amici fortissimi, tutti abbracciati. Ognuno con il proprio scopo, ma quando poi si riuniscono sono cazzi amari.

Milano d’amare

Torniamo a Radici. Quanto senti tua la Milano del rap al momento?

Milano non è più di nessuno. È la sede neutrale del grande campionato di tutti. La sento molto mia perché tutti quelli che sono arrivati li abbiamo visti crescere. Questo posto ti cambia se non sei di qui.


Il brano è una dichiarazione d’amore in questo senso?

È una dichiarazione d’amore al fatto che ovunque andrò io sarò sempre nato a Milano. Odio l’Italia per il suo sistema. Non crescerei mai mio figlio qui, gli leverei dieci opportunità. Ma lo porterei a Milano. Deve sapere che cos’è, e perché io sono così. È una città che rimane sempre la stessa, perché le persone che passano non hanno il tempo di mettere radici. Ce l’hanno solo i milanesi.

Abbiamo ringraziato Emis Killa per aver convinto Jake La Furia a tornare a rappare. Credo però che fra le tappe più significative del riavvicinamento di Jake alle rime vada inclusa anche la tua Più forte di me. Decisamente una delle sue migliori strofe degli ultimi anni. Se tu potessi condividere il beat con un’altra leggenda, chi sarebbe?

Marra.


Ascolta Radici di Nerone (ft. Clementino)

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