Hip Hop

Jamil: «Mi importa del rap, non del vostro consenso»

Abbiamo intervistato Jamil, che ha deciso di dedicare il nuovo album Rap is back alla sua storia e alla sua vita

Autore Filippo Motti
  • Il24 Settembre 2020
Jamil: «Mi importa del rap, non del vostro consenso»

Jamil

 

Guess who’s back?” cantava nel 2002 uno dei suoi artisti preferiti. La risposta è Jamil, che ha appena pubblicato il nuovo album Rap is back. Il rapper di Verona non ha dubbi sul concept che anima l’album, e ha voluto mettere le cose ben in chiaro a partire dal nome del progetto.

Non solo un commento sullo stato di salute del rap italiano. L’ultima fatica del volto più noto di Baida Army mette al centro il suo autore, in tutto e per tutto. A partire dalle sue passioni, che ritroviamo in copertina, fino alle scelte artistiche, che hanno portato ad escludere qualsiasi collaborazioni. 10 tracce, 10 volte Jamil sul beat. E nessun altro.


Di questo ed altro abbiamo parlato al telefono con Jamil, che ci ha voluto spiegare minuziosamente il ruolo della sua vita e delle sue idee in Rap is back.

Curiosa la scelta dell’artwork ispirato a Dylan Dog.


Ad un certo punto abbiamo deciso di farlo fare ad un fumettista, così abbiamo affidato il disegno per la copertina ad Emiliano Tanzillo, disegnatore di Dylan Dog. Io e la mia ragazza siamo fan del fumetto, mi sono trovato varie volte a comprarli per lei. Ho scritto a Emiliano, gli ho spiegato il concept, l’immagine di me che torno a casa con un borsone. Gli ho anche detto che gli avrei dato di più per disegnare tutti i miei tatuaggi (ride, ndr). È stato un perfezionista. Dopo due mesi ci è venuta l’idea di un fumetto dedicato per ogni brano.

Di chi è la colpa se il rap se ne è andato? Anche di artisti con cui hai collaborato in passato?

Molti di quelli con cui ho lavorato hanno cambiato genere. Io faccio questa roba da sempre, sono come una pizzeria, sai già cosa troverai. Vieni da me se vuoi mangiare la pizza. Forse gli altri si vergognano a dire che fanno pop o reggaeton, abituati al fatto che non è virile. Sono un po’ omofobi questi nuovi rapper.

Raccontaci il disco.


Rap is back, il rap è tornato. Ora è tutto un ostentare, c’è solo omologazione e autotune. Torno a parlare anche ai più giovani, visto che molti rapper più vecchi sono meno attivi e non hanno la mia visibilità. L’album è personale, non perché è una lagna, ma perché parla solamente di me a 360°. Dallo stile alla ragazza, dalla mia filosofia alla mia vita. Lo faccio partendo da Top Boy, ispirata dalla serie girata in Inghilterra. “Top Boy” è come ci chiamiamo per strada, è il biglietto da visita che parla della mia squadra. Rap is back, la title track, è il cavallo di battaglia in cui spiego come rappo, a differenza degli altri: “Se non fosse per la droga nemmeno trappavi, non ci fosse l’autotune nemmeno cantavi”. Io metto il talento davanti a tutto. Non ostento, non metto collane, che in Particolare paragono al collare, perché sei schiavo di chi ti paga. In Tutto bene ho la mia squadra a fianco, i miei angeli custodi che mi fanno da bodyguard. Sono presi dal quartiere, non dalle discoteche. My Life è un pezzo personale, in cui dico per la prima volta di aver smesso di fumare il bong, dopo averlo promesso a mio padre, che me lo chiese da un letto d’ospedale.

La figura di tuo padre è molto presente nel disco.

È presente come quella di mia nonna, di mia madre… Ho un ricordo indelebile su di lui, aveva avuto un infarto all’estero. Ho vissuto ore pesanti, gli sono stato vicino più di tre settimane, non sapevo se sarebbe sopravvissuto. Gli hanno pure messo un chip nel petto. Sono anche storie come queste che mi fanno dire che col consenso degli altri mi ci pulisco le scarpe. La vita vera è un’altra.

Che è un po’ il senso di My Life alla fine…


La cosa figa di quel pezzo è che abbiamo mandato la canzone al management di Nipsey Hussle e ci hanno dato la liberatoria per usare la sua voce negli scretch. Sono in pochissimi a poter dire di avere il permesso di farlo.

E sul resto della tracklist?

In Squalo faccio il paragone tra l’animale e le scarpe “da pusher”. Come uno squalo cerco il sangue, mangio gli altri pesci, e sono molto libertino. Baby Go parla delle soddisfazioni che mi sono tolto con il rap, come prendere la macchina a mia madre.

Poi c’è il tuo primo pezzo d’amore in assoluto, giusto?


Sì, Come dici tu. L’ho dedicato alla mia ragazza. Mi piace perché è scritto in maniera molto ricercata nelle parole. La base poi è rap puro, non è pop per allargare il brano al pubblico femminile. Ci sono molto affezionato.

Come finisce il disco?

Chiudo con Nessuno, in cui ribadisco che sono indipendente, con una crew multietnica, il mio merch, il mio studio, sono regista dei miei video. Quando dico che uno come me non lo trovi in America è perché non sono la copia di nessuno. Qua in Italia ormai ogni trapper va ricondotto a qualcun altro. Uno sembra Future, uno Famous Dex, uno Lil Peep, un altro Lil Pump. Ognuno copia e si ispira, mentre io mi sono voluto tenere il mio stile. Certo, adoro Eminem, ho preso la roba dei dissing, ma mica mi faccio biondo. Idem Machine Gun Kelly, mi piace ma non canto come lui, come fanno altri che invece si atteggiano e parlano in modo non consono. Non puoi usare certe terminologie, soprattutto se non sei nero.

Ci spieghi l’assenza di featuring?


Questa volta ho voluto parlare solo di me, per fare un disco il più personale possibile. Non ho voluto fare feat, è difficile accostarmi ad un artista, tanto quanto fare un disco senza feat. Ormai ti guardi prima la lista delle collaborazioni che il disco. A me piace fare il diverso.

Qual è il pezzo a cui sei più legato? 

Vengo dalla strada è così personale che la gente lo capirà nell’arco degli anni. Dico sempre: “ho toccato più cuori che visualizzazioni”. Penso che tutto l’album sarà così, sono tutte parti me, come se fosse un corpo unico. Non ti chiederesti mai se preferisci le mani o i piedi. Entrambi hanno la loro funzione. È bello ascoltarlo insieme, e anche per questo tutto l’album è il mio preferito.

Nel disco riprendi il ritornello di tha Supreme in Supreme di Marracash. C’è almeno un artista della nuova scena che propone l’idea di rap che supporti?


Dopo aver sentito un paio di pezzi di Nayt ho pensato che finalmente ci fosse qualcun altro a parte me che avesse voglia di pensare al testo, agli incastri e ai dissing, come ne Gli Occhi della tigre. Quando ci siamo conosciuti abbiamo capito che c’era massima sintonia ed è nata una grande amicizia, ci videochiamiamo spesso. Lui è uno dei primi a cui ho detto il titolo dell’album. È uno della scena con cui mi trovo bene, sia per come si approccia sia a livello musicale.

https://www.instagram.com/p/CFZo0kEqmDU/

Hai ribadito che per te il rap in Italia se ne era andato. Prima di allora, qual era stato il suo momento più alto?

Sicuramente quando certi artisti come Marcio, Inoki e Fibra hanno portato il rap in tv. Purtroppo ad alcuni sono cambiate le cose, altri son rimasti scontenti, ma lì il rap ha fatto il boom. Io poi son cresciuto guardando il 2theBeat, ho iniziato a rappare guardando 8Mile, e vedere quella roba in tv con Inoki che presentava era un momento alto. Non mi piacevano certi pezzi commerciali rap che c’erano in tv. Massimo rispetto per Fibra, ma la sua roba di quel periodo non l’ho mai apprezzata particolarmente.

Quando ti sei detto che stava andando tutto a rotoli?


So solo che i social network hanno influito. Poi la moda unita al rap ha fatto calare la voglia di avere talento ma aumentare la voglia di avere un bell’outfit.

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