Hip Hop

Dargen D’Amico: «Preferiamo rendere il dolore altrui intrattenimento invece che comunicare con noi stessi»

Dopo un festival di Sanremo che lo ha riportato decisamente alla ribalta, domani esce il nuovo album del rapper/cantautore/produttore milanese: “Nei sogni nessuno è monogamo”. In questa intervista ci ha raccontato di come stesse per lasciare tutto, del valore della noia, del sogno del tradimento e sì, anche del suo rapporto con Fedez

Autore Silvia Danielli
  • Il3 Marzo 2022
Dargen D’Amico: «Preferiamo rendere il dolore altrui intrattenimento invece che comunicare con noi stessi»

Dargen D'Amico, foto ufficio stampa

Dargen D’Amico è sul terrazzo, al sole di metà mattina, con una giacca-camicia, e sembrerebbe essere al mare o in campagna. Invece Jacopo D’Amico è nella sua Milano, collegato via Zoom, pronto a raccontare con puntuale ironia il nuovo album Nei sogni nessuno è monogamo che esce domani.

Un lavoro nato nel giro di due mesi durante i quali Dargen si è chiuso da solo in studio (e prima in un monolocale in un seminterrato preso in affitto a Milano) con alcune delle persone che stima di più. Marco Zangirolami (produttore con cui lavora da anni anzi «da sempre»), D. Whale (con cui ha già collaborato), Edwin Roberts, DɅNɅ e JVLI. «Avevo accumulato un sacco di idee negli ultimi anni e le ho semplicemente riversate in questo lavoro».


La sua condizione sembra la metafora del momento lavorativo che sta vivendo: un bel posto al sole nella scena musicale.

Dargen è un nome di culto per gli amanti del rap, super-stimato dai colleghi, ottimo anche come autore (per Fedez e molti altri) e produttore, ma stava vedendo un po’ scemare il suo progetto personale in questi ultimi anni. Probabilmente anche per la mancanza di live negli ultimi 2: «Prima viaggiavo, tornavo, mi esibivo in concerto e scrivevo ma poi come per tutti si è interrotto il meccanismo e il mio progetto stava morendo», come lui stesso ci ha rivelato.


Ora, invece, innegabilmente grazie alla partecipazione al festival di Sanremo, può dire di essersi riconquistato il suo spazio. Dove si balla (che era il brano in gara) è al momento al quarto posto sia della Top 50 di Spotify sia della classifica Earone dei singoli più ascoltati in radio, ed è disco d’Oro.

La nostra intervista a Dargen D’Amico

Dargen, esce il tuo album in un momento in cui si parla solo della guerra in Ucraina: a te fa impressione discutere di musica proprio ora?

Non più del solito perché si parla di guerra nelle zone del Donbass da più di 4 anni. Adesso temiamo più per noi che per le persone coinvolte, purtroppo.

Per me Dove si balla è stato il pezzo più politico presente al festival per i riferimenti alle morti nel Mediterraneo ma non mi sembra sia uscito molto.


In che senso politico? Non è possibile scattare una fotografia del nostro Paese senza dimenticare questo aspetto delle migrazioni. Se no sarebbe una foto ritoccata con Photoshop. Volevo raccontare tutto quello che mi ha colpito della storia italiana degli ultimi mesi. In un mondo basato sullo scambio continuo di informazioni, spesso a essere messi sul piatto sono gli uomini stessi. Io però sono convinto che la politica italiana sia quanto di più lontano dalla vita dei cittadini quindi l’aggettivo politico mi fa anche storcere il naso.

Intendevo politico in quella che può ancora essere considerata l’accezione migliore.

Se ha un’accezione positiva in generale è rimasta molto risicata. Comunque, il brano ha una superficie “da trenino” ma poi la musica va ascoltata e non per forza interpretata. A me capita di non analizzare quello che ascolto. Comunque, produrre questo brano è stato liberatorio e quello che arriva alle persone è quello.

Anche i titoli di due brani presenti nell’album, Gaza e Ustica, aprono questioni enormi e inestricabili ma poi i pezzi si concentrano su tutt’altro.


Credo che i titoli siano figli della velocità con cui sono nati i brani, cioè abbiano fatto salire dei quesiti enormi. Ustica è una delle verità mai dette italiane, l’indice di un modus operandi di questo Paese che non è mai cambiato e che mi colpì proprio negli anni ’90, il periodo in cui iniziavo a interessarmi di questioni politiche. Quel malessere rimane per sempre e quando decidi di aprire la tua coscienza, emerge. Il brano parla di questioni personali è vero ma significa che parla di noi, proprio come la vicenda di Ustica.

In Gaza dici anche “la noia è peggio del dolore”.

È quello di cui ci cibiamo: preferiamo rendere il dolore altrui intrattenimento piuttosto che comunicare con noi stessi. La noia è la porta attraverso cui possiamo conoscere noi stessi. È il modo per fare un autoscatto sincero alla nostra vita e andrebbe imposta.

Tu riesci ad annoiarti?


Sì, certo. A parte che quando sembro proprio annoiarmi sto facendo altro in realtà.

E poi “che noia le serie tv sulla droga”.

Sarà che ormai sono vecchio ma non sono un fan delle serie per forza. E non sono pronto per l’utilizzo di alcuni mezzi in generale, come per esempio TikTok. So che sono presenti dei contenuti molto interessanti, che mi hanno fatto vedere, ma non ne sento la necessità. Non è il mio linguaggio, faccio fatica già con Instagram, quindi non riesco. Poi se fossi costretto per continuare a produrre musica lo utilizzerei di sicuro.

Quando è nata Ma noi invece?


Volevo un brano che si intitolasse così perché volevo togliere una lettera al mio vecchio pezzo Ama noi. Mi piace fare questi giochi. È nata il 4 dicembre quando hanno letto i nomi di Sanremo al Tg1 e mi ha scritto un sacco di gente. Tra questi anche una compagna di classe che non sentivo da non so quanto tempo.

Quindi ti ha scritto anche “lei”, la compagna delle superiori che immagini di ritrovare a una cena di classe?

Sai, nelle canzoni è tutto finto.

No, dai, volevo crederci!


Non è che ci sia una persona sola ma una somma di diverse figure e poi nelle canzoni mi piace inscenare delle situazioni che non vivrei mai! Io non andrei mai a una pizzata di classe, ma ti pare? Già dovrei essere stra-sicuro che lei si ricordi esattamente chi sono: pensa se fai una rimpatriata per vedere una ma lei poi non si ricorda di te?! Comunque, Ma noi non è dedicata a nessuna: mi è anche capitato di scrivere delle canzoni per qualcuno ma che questi non se ne accorgesse minimamente.

A proposito del titolo dell’album: «Un augurio a riconsiderare i sogni come piattaforme di lancio per la realtà!»

Il titolo Nei sogni nessuno è monogamo è geniale ma mi mette angoscia.

Perché angoscia? Sai, negli ultimi anni ho smesso di vivere la parte del sogno come l’inizio della giornata. Prima mi ci concentravo, ne scrivevo, ora basta, il sonno ha iniziato a servirmi solo per riposarmi. Non so se capita un po’ a tutti. È un augurio: a riconsiderare i sogni come piattaforme di lancio per la realtà! Per conciliare magari visioni parallele. Poi, fai bene a preoccuparti: tanto il sesso è metafora per tutto il resto.

A te non preoccupa questo concetto?


No, le sensazioni naturali non mi mettono angoscia, anzi.

Mi pare che ti preoccupi invece l’idea dell’invecchiamento in diversi punti dell’album, è così?

Sì, mi sento vecchio. Fisicamente di sicuro, i tempi di recupero si sono dilatati e per fare serata come quando avevo 20 anni poi ci metto non so quanto per riprendermi. Mentalmente… anche! Mi sento diverso da quando ero giovane. Poi per riassumere il concetto dico di sentirmi vecchio anche se questo magari comporta una maturazione o l’eliminazione di un sacco di zavorre. La vecchiaia non è per forza negativa.

Ti piace collaborare con rapper o produttori più giovani?


Molto. Il rapporto in stile fratello maggiore e minore è appagante, perché tu puoi fornire la tua esperienza e di rimando ti possono arrivare un sacco di informazioni interessanti anche su quello che fai tu.

In Nei sogni nessuno è monogamo non ci sono feat. e anche a Sanremo hai presentato La Bambola da solo, come mai?

Non ho fatto delle riflessioni importanti sul tema ma dopo anni di sonno imposto volevo cercare di uscire dal torpore e volevo essere responsabile per tutto quello che facevo. Comunque, sono una persona che fatica a socializzare in generale ma adoro farlo in studio. Soprattutto trovare punti di contatto con persone diverse da me.

Dieci anni fa quando chiedevo ai rapper chi fosse il loro collega di riferimento mi veniva sempre e solo fatto il tuo nome. Nessuno oggi mi ha mai detto il contrario ma il fatto di essere così vicino a Fedez secondo te può aver allontanato da te alcuni artisti o può aver raffreddato il loro entusiasmo?


Non lo so, potrebbe anche essere, Federico è un nome ingombrante. Però non mi preoccupa.

Il fatto che tu scriva per lui è stato ancora decisamente oggetto di dibattito soprattutto nella famosa intervista di Esse Magazine uscita settimane dopo quando doveva.

Io scrivo anche per altri però, quindi credo che il problema ce l’abbiano le persone e il giornalismo musicale con Federico. Ma questo è anche la sua forza. Mi piace il mondo dell’autorato perché mi piace cercare soluzioni con un altro artista e poi tornare a casa e non dover rendere conto a nessuno su Instagram. Con Federico questa cosa non si può fare perché tutti vogliono sapere qualcosa e non capisco neanche perché.

Voi vi trovate molto bene insieme? Perché sembrate molto diversi.


Siamo molto molto diversi ma condividiamo il fatto di essere due asociali. Sono sicuro che il fastidio che provo per Instagram lo sente anche lui, certo da due punti di vista differenti. Non penso che possa vivere con gratitudine e tranquillità quel tipo di fama che è anche così violento. E poi a livello di scrittura lui è molto legato ai miei primi due dischi e mi permette di tirare fuori delle soluzioni che non utilizzerei mai per me.

Secondo te quale sarà la prossima hit dopo Dove si balla: Patatine o Sangue amaro o un altro brano?

Non saprei perché per me tutte le canzoni sono pezzi di cuore o comunque di giornate e di ore spese. E poi penso alle produzioni ma sul lato della promozione e della indicazione del singolo, non capisco veramente niente.

Le date live di Dargen D’Amico

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