Elettronica

Le “Parts of Life” di Paul Kalkbrenner: «Sono popolare perché sono unico»

Paul Kalkbrenner, uscito da poco con il nuovo album “Parts of Life”, è probabilmente l’unico artista proveniente dalla scena del clubbing tout court capace di raggiungere un pubblico di matrice pop

Autore Damir Ivic
  • Il16 Luglio 2018
Le “Parts of Life” di Paul Kalkbrenner: «Sono popolare perché sono unico»

Paul Kalkbrenner

Suite di un albergo a cinque stelle a Roma, in Via Veneto, in mezzo ai lussi da altissima borghesia e nobiltà. Però Paul Kalkbrenner, uscito da poco con il nuovo album Parts of Life, è il solito Paul: jeans, felpa, modi di fare informali, tono di uno sicuro di sé e niente understatement. Solo la fiducia brusca e schietta di chi si è visto ottenere tutto quello che desiderava, passo dopo passo.

Da oscuro producer della techno berlinese a stella globale, probabilmente l’unico artista proveniente dalla scena del clubbing tout court, con l’attitudine da purista, capace di raggiungere un pubblico incredibilmente vasto e variegato, di matrice pop. Impresa riuscita ai vari David Guetta, Martin Garrix, Calvin Harris ma solo partendo dai lidi dell’EDM. Per accattivarci subito la sua simpatia, iniziamo parlando del suo sport preferito, il calcio, e di un’intervista rilasciata da un suo strettissimo amico, il calciatore tedesco Per Mertesacker.


Per Mertesacker, campione del mondo con la Germania nel 2014, ha ammesso di non sopportare più la pressione. Non sei un calciatore ma anche tu devi sopportare una pressione abbastanza forte tra le aspettative dei fan e quelle dell’industria discografica.

Decisamente. Ma credo che riguardi chiunque decida di fare qualcosa che ha un risvolto pubblico. Io sto con gli antichi greci: chiunque decida di fare un passo dal privato al pubblico – si tratti di fare il politico, l’attore, l’atleta o chissà che altro – da quel momento in avanti sa che non è più in diritto di lamentarsi per le pressioni e le attenzioni che questo comporta.


Quanto è stato lungo il processo per arrivare a questa consapevolezza?

Brevissimo. L’ho capito fin da quando, quindicenne, mi ritrovato a suonare nei primi party di fronte a venti persone. Devi affrontare il Lampenfieber, come si dice in tedesco: il panico da palcoscenico. Quanto è presuntuoso pensare che sia sempre tutto facile, come se si fosse destinati ad avere davanti sempre e solo i propri amici più stretti o i famigliari! L’ho detto chiaramente anche a Per: “Nessuno ti ha costretto a giocare! È stata una tua scelta. Devi considerarne tutte le conseguenze e le implicazioni, troppo comodo se no…”.

Paul Kalkbrenner, "Parts of Life"

Ritengo che Back to the Future, il progetto con cui hai rimesso in circolazione gemme originarie della techno dei primi anni ’90 ri-editate, fatte circolare in download o tramite cassette e trasformate in ossatura di un vero e proprio live show, sia stato per te un progetto molto importante. Una specie di reset.

Proprio così. Back to the Future è la cosa più importante che abbia da molto tempo a questa parte: non solo per i re-edit, gli show dal vivo, i mixati distribuiti in cassetta o download in sé, ma proprio per la maniera in cui mi sono “pulito” la mente. Riscoprendo il vero piacere di fare musica, le basi, le origini. Col mio precedente album in studio, 7, ero entrato in una specie di personalissima fase tardo-barocca, rococò: troppi arazzi, troppe rifiniture. Ho riscoperto il piacere dell’essenzialità. Ho riscoperto anche il piacere della velocità: se 7 si muoveva sui 123 bpm nella sua versione da studio, fin dall’inizio mi sono accorto che dal vivo bisognava spingerlo fino a 130 bpm, che è la velocità media che ho voluto mantenere in questo nuovo Parts of Life.


Immagino però che a te piaccia ancora, che tu ci sia affezionato.

Per nulla! Sarò sincero: tutto quello che c’è fra la colonna sonora di Berlin Calling, ovvero il disco con cui sono diventato una star, e questo Parts of Life è qualcosa di minore, di non abbastanza valido. Ci sta: è nella media sfornare una pietra miliare ogni dieci anni, non trovi? È fisiologico. Io poi sono uno che lavora non in maniera metodica, ma a fiammate. Quest’ultimo album ad esempio l’ho completato praticamente in soli tre mesi, tra novembre 2017 e gennaio ’18.

Ho letto una tua dichiarazione in cui affermavi che uno dei lati positivi di aver lasciato una grossa agenzia di booking come la William Morris Endeavor – autentico colosso a livello mondiale – era di essere tornato a fare molte più date nel circuito più techno, dove ritrovavi gli artisti con cui avevi iniziato negli anni ’90, prima di diventare una superstar. È vero?

Sì, ora è più frequente che torni ad esibirmi in contesti più prettamente techno e house. Credo sia meglio per me, anche se questo significa fare delle rinunce in termini di cachet. Mi trovo più a mio agio a stare in posti dove c’è una buona concentrazione di techno heads, fa del bene a me e credo anche alla mia musica. Di sicuro era il contesto adatto per tutto il progetto Back to the Future. Ma non c’è nessuna polemica da parte mia. Dopo sette anni con William Morris Endeavor si è chiuso un ciclo. Come succede nel calcio: anche gli allenatori migliori hanno cicli che si aprono e si chiudono.


Ti sei mai provato a chiedere, negli anni, come mai tra gli artisti techno e house proprio tu sei diventato tra i più popolari?

Vuoi la risposta? Ascolta Parts of Life! Sono diventato così popolare perché sono unico. Ho un tocco particolare e riconoscibile. Sono bravo. E lo sono anche quando si tratta di esibirsi dal vivo. Guarda il main stage del Tomorrowland: trovi DJ/producer che mettono su degli spettacoli notevoli, certo, ma dal punto di vista strettamente musicale sul palco non fanno nulla, lavorano con dei set pre-registrati. La gente sta iniziando a stancarsi di luci, fuochi, laser. Sai qual è la conseguenza? Che a breve tornerà a prestare più attenzione a quello che un artista elettronico davvero fa quando sta su un palco. E lì sarò fra quelli piazzati meglio di tutti. Sono convinto che il mio successo non sia al suo apice ma, anzi, sia destinato a crescere. Del resto i miei brani più famosi hanno sì un impianto ritmico techno-house, una matrice underground, ma in realtà sono canzoni talmente buone che avrebbero lo stesso successo con qualsiasi arrangiamento.

Ecco: cosa significa, nella musica elettronica ma non solo, il termine underground?

Lo sapevo benissimo quando ero giovane. Ora non lo so e non lo voglio sapere. Significa che non vuoi essere commerciale, forse? Ovvero? Che volutamente ti abbassi i cachet quando suoni? Ma quando mai. Nel momento in cui diventi padre, le tue prospettive personali cambiano radicalmente e tutti i pensieri e tutta la retorica attorno all’essere underground li getti dalla finestra.


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